Italiano

Pesca, tra eccessivo sfruttamento e sostenibilità, non sappiamo spesso cosa mangiamo.

In data 9 luglio 2018 l’Unione Europea ha terminato le proprie scorte di pesce e, a partire dal giorno successivo, abbiamo iniziato a consumare totalmente pesce importato, a dichiararlo è il WWF durante il “Fish Dependence Day UE” la giornata, simbolica, in cui il Vecchio Continente smette di poter far affidamento sui propri prodotti ittici (naturali o di acquacoltura) e si avvia al consumo di pesci provenienti da Paesi extracomunitari. Fino a trent’anni fa l’Europa riusciva a soddisfare la propria domanda interna con pesca e allevamento locali fino a settembre o ottobre, stavolta la giornata di non ritorno è arrivata invece un mese prima rispetto a quanto accadeva nell’anno 2000. Per l’Italia il termine delle proprie scorte ittiche 2018 è arrivato anche prima, ossia il 6 aprile. La fine delle scorte di pesce UE è però solo uno dei due messaggi d’allarme riguardanti i mari. Secondo i dati FAO sono circa 4,6 milioni i pescherecci che solcano le acque internazionali: troppi se rapportati ai pesci dei mari con la conseguenza che il numero di specie pescate in modo non sostenibile è triplicato negli ultimi 40 anni. Così gli oceani assisterebbero loro malgrado al sovrasfruttamento delle proprie risorse: sovrasfruttato è infatti il 33% degli stock ittici globali, mentre il 60% è sfruttato al limite delle proprie capacità.

I dati Istat elaborati da Coldiretti pubblicati dalla Stampa parlano chiaro: l’80% del pesce che mangiamo proviene dall’estero, il 40% addirittura da fuori l’Europa. Colpa dello squilibrio tra pesce ed importazione. Ogni anno nei mari italiani vengono infatti pescati circa 180 mila tonnellate di pesce, le importazioni, però, ammontano a più di un milione (erano 582mila nel 1993, +84%). Dal 1985 tutti i Paesi membri dell’Unione europea, per consentire il ripopolamento delle specie ittiche, fermano la propria flotta di pescherecci (flotta che inoltre in Italia è scesa vertiginosamente passando da 18.000 a 12.500 negli ultimi anni ed occupando circa 27 mila lavoratori imbarcati e 100 mila lavoratori a terra). La controindicazione del fermo biologico sta nel rischio però che, con i pescherecci italiani ancorati nei porti, aumenti l’import dall’estero di prodotti ittici. Senza contare che, nel Mediterraneo, mentre le flotte italiane si fermano, quelle egiziane, libiche, turche e tunisine continuano a lavorare a pieno regime, erodendo quote importanti di mercato. Ma il dato più preoccupante è che la maggior parte del pesce che importiamo non sarebbe fresco. Non solo: è di infima qualità e in molti casi non è nemmeno il pesce che crediamo di mangiare. Pangasio del Mekong spacciato per cernia, halibut per sogliola, squalo smeriglio al posto del pescespada, diventano sempre più famosi così i casi di pesci venduti sui mercati italiani spacciati per altri. E se mercati e pescherie hanno l’obbligo di rendere conoscibile la provenienza dei prodotti, lo stesso vincolo non vale per i ristoranti. In tutto questo le irregolarità rivelate hanno numeri impressionanti: nel solo 2017 le Capitanerie di porto hanno effettuato 21.112 verifiche lungo tutta la filiera, rilevando 2.814 illeciti, più del 13%. Qui le irregolarità penali (237 i denunciati) vanno dalla tentata frode in commercio (pesce congelato venduto come fresco o in cattivo stato di conservazione) fino alle lesioni per aver somministrato ai clienti prodotti infestati. Non c’è, però, da lanciare particolari allarmismi poiché i controlli, specie in Italia, esistono e funzionano, ne è una conferma il numero di sequestri ed accertamenti a riguardo.

Tutta l’Europa importa; il pesce importato offre maggiori varietà, servizio e prezzi calmierati. Uno dei problemi principali non è la mancanza di pesce nostrano, ma che sono cambiate le abitudini alimentari degli italiani. Risultato di numerose iniziative per la diffusione dei principi di una sana alimentazione che vede nel consumo di pesce un pilastro cruciale, nel nostro Paese si consumano oggi circa 25 chili di pesce procapite l’anno (il doppio del consumo rispetto agli anni Sessanta). Il problema è che le scelte del 42% dei consumatori si concentrano solo su sei specie, ignorando molte di quelle provenienti da stock disponibili.  A tal riguardo il WWF ha evidenziato la necessità di una filiera tracciata e la responsabilità del consumatore, chiamato a privilegiare pesce sostenibile e disponibile, anche se meno “pregiato”. Alla base del concetto di pesca sostenibile c’è innanzitutto, infatti, il rispetto per il mare, inteso come patrimonio naturale e bene comune minacciato da preservare. Affinché qualcosa cambi bisognerebbe ora modificare le politiche globali, la richiesta e il consumo, in una direzione sostenibile, se non vogliamo esaurire il pesce a noi rimasto a disposizione. Fondamentale sarebbe, quindi, sia che le autorità rafforzassero le norme sulla tracciabilità e l’etichettatura, sia che le imprese, come il mondo della ristorazione, le rispettassero e i consumatori fossero più attenti nella scelta dei prodotti, preferendo quelli locali, meno nobili ma più disponibili. Sia che si tratti di pesce di provenienza nazionale sia di importazione, la cosa importante è fare oggi una scelta sostenibile, aiutando così gli oceani e gli stock ittici a recuperare e a sostenere il benessere di quelle persone che dipendono dal pesce come fonte primaria di cibo e reddito. Con l’anticipazione di settimana in settimana, fra non molti anni, mangiare pesce locale, a miglio zero, anche nel nostro Paese potrebbe presto diventare impossibile.

 Ammiraglio Giuseppe De Giorgi

Pesca, tra eccessivo sfruttamento e sostenibilit��, non sappiamo spesso cosa mangiamo.