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Orizzonti Marittimi

1. La vocazione marittima dell’Italia

Sul mare si sviluppano la gran parte delle attività produttive proprie dell’uomo: i trasporti lungo le linee di comunicazione marittime, il flusso di petrolio e gas, l’attività di pesca, lo sfruttamento delle risorse energetiche e minerarie individuate al di sotto dei fondali marini, etc..

Il 70% della superficie della Terra è coperta da acqua e l’80% della popolazione mondiale è concentrata in una fascia distante meno di 200 km dalla costa; per tale ragione il mare rappresenta una via preferenziale da cui condurre le operazioni di proiezione di forza o più in generale, di capacità, non solo in operazione militari propriamente dette, ma anche d’intervento a sostegno alle popolazioni colpite da calamità naturali, da carestie, epidemie , etc..

L’Italia è fortemente dipendente dal mare per l’approvvigionamento di risorse energetiche e per lo scambio di prodotti finiti/materie prime. In ragione della sua posizione geografica, il Paese rappresenta un hub strategico per l’intera Europa.

La sicurezza delle linee di comunicazione marittime è essenziale per garantire lo scambio commerciale che dall’Italia transita in Europa e per sostenere l’industria di trasformazione del Paese. Qualunque tentativo di restringere le capacità di movimento dei vettori economici italiani in ogni parte del mondo, costituisce di fatto un attentato alla sicurezza/prosperità nazionale.

Particolare rilevanza assume ovviamente, per l’Italia, il bacino del Mediterraneo che, con appena l’1% della superficie acquea globale, è attraversato dal 20% del traffico marittimo mondiale che sale al 30% per quanto riguarda il petrolio, nonché al 65% delle altre risorse energetiche destinate all’Italia e agli altri Paesi europei. L’Italia è il primo paese in Europa per quantità di merci importate via mare; sempre via mare importa circa l’80% del petrolio necessario per il fabbisogno interno; con i suoi porti principali di Genova, Trieste , Venezia-Porto Marghera,  è inoltre il ponte naturale fra l’Oriente (tramite Suez) e l’Europa e con Gioia Tauro rappresenta (meglio dire potrebbe rappresentare qualora quest’ultimo venisse rilanciato) lo snodo ottimale per la ridistribuzione del traffico container, dalle grandi navi a quelle più piccole responsabili della ridistribuzione fra gli altri porti del Mediterraneo.

È quindi del tutto evidente come il mare sia un fattore essenziale per la prosperità dell’Italia, oltre che per la sua sicurezza. La protezione del complesso sistema produttivo e di trasporto marittimo delle linee di comunicazione marittima, oleodotti e gasdotti sottomarini, porti, interporti, centri nodali di smistamento, navi, piattaforme petrolifere · e l’investimento nella marittimità sono essenziali per lo sviluppo del Paese.

 

2. Il Mediterraneo allargato

Sarebbe un grave errore immaginare di confinare l’area d’interesse nazionale al solo Mediterraneo, anzi al solo Mediterraneo centrale come di recente vorrebbero alcuni.

La globalizzazione dell’economia ha accentuato l’interdipendenza di Paesi geograficamente lontani, ma coinvolti nella stessa catena produttore-consumatore, il cui elemento di continuità è rappresentato dal mare e dal flusso globale di merci/risorse energetiche che lo attraversano. Oggi il 90% dei beni e delle materie prime transita lungo le linee di comunicazione marittime e il 75% di questo flusso scorre attraverso pochi vulnerabili passaggi obbligati (c.d. choke points), costituiti dai canali e dagli stretti internazionali.

In Oceano indiano, in cui transita in termini di tonnellaggio la maggioranza delle merci mondiali, il 65% del petrolio e il 35% del gas, l’ENI sviluppa importanti e promettenti attività estrattive, fra cui,  di particolare interesse rivestono gli immensi giacimenti di gas al largo del Monzambico.

Gli accessi all’Oceano Indiano e le relative linee di comunicazioni, sono controllati da 7 dei 9 più importanti passaggi obbligati del Pianeta (Stretto di Hormuz, Canale di Suez, Babel Mandeb, Capo di Buona Speranza, Stretto di Malacca, Stretto della Sonda, Stretto di Lombok)

Per quanto riguarda l’Italia, Suez, Babel Mandeb e Hormuz assumono naturalmente valenza primaria.

Per Hormuz transita tutto il traffico marittimo dei Paesi del Golfo; è senz’altro il più importante passaggio per gli idrocarburi a livello mondiale (ca 20 Mil. di barili al giorno, pari ad approssimativamente il 20% degli idrocarburi trasportati via mare nel Mondo). A differenza degli altri stretti, non è aggirabile. Una volta chiuso l’accesso via mare, il Golfo Arabico-Persico sarebbe isolato. Hormuz e in realtà tutto il bacino del Golfo Persico è facilmente minabile, cosa già accaduta ai tempi del conflitto Iran-Iraq.

Il Canale di Suez è la porta d’accesso orientale al nostro mare, insieme a Babel Mandeb, è senz’altro il passaggio obbligato più importante per l’Italia. L’eventuale chiusura del canale comporterebbe un allungamento della rotta verso l’Europa di circa 6.000 miglia nautiche. Largo non più di 300 metri, è anch’esso facilmente minabile, anche da entità non statuali (evento già successo nel 1984), ed è sotto il controllo totale di una sola nazione, l’Egitto. Di qui fra l’altro l’importanza strategica della Somalia, dello Yemen e dell’Oman per la sicurezza degli accessi al Mar Rosso/Mediterraneo per gli interessi italiani.

I passaggi obbligati sono soggetti a varie minacce come la pirateria, il terrorismo marittimo sinistri di grandi proporzioni, instabilità politica degli stati rivieraschi. La loro chiusura, ipotesi spesso scartata come mero esercizio militare, (oltre ad essersi già verificata in passato) trova, se ce ne fosse bisogno, nuova credibilità, per la sempre maggiore pericolosità di attori non statuali e la crescente diffusione di armi  più potenti e sofisticate, un tempo prerogativa esclusiva di un ristretto numero di Nazioni.

In particolare l’eventuale chiusura degli accessi orientali al Mediterraneo trasformerebbe la configurazione del commercio mondiale a danno dell’Italia che risulterebbe penalizzata dallo spostamento dei traffici dalle rotte per Suez a quelle che circumnavigano l’Africa, con il conseguente punto di imbarco e sbarco delle merci nei porti nordeuropei anziché negli storici porti mediterranei italiani.  Come accadde dopo la scoperta dell’America, sino all’apertura di Suez il Mediterraneo sarebbe marginalizzato sotto ogni punto di vista. La nostra economia ne risentirebbe in modo catastrofico.

La volatilità politica dell’area è evidente; un tempo placido lago della Royal Navy, l’Oceano Indiano è testimone della crescente ricerca d’influenza di Cina e India, dell’insuperata storica tensione fra India e Pakistan, della lotta fra Iran e Arabia Saudita, delle linee di frattura interconfessionali del mondo mussulmano, dell’espandersi del terrorismo islamico. Ad aggravare ulteriormente il quadro non possono essere trascurati fattori ambientali, quali l’erosione delle riserve ittiche e gli impatti del cambiamento climatico, con il relativo innalzamento del livello medio del mare e conseguente riduzione delle terre emerse.

Ne consegue che la gran parte delle Nazioni facenti parte del G8 mantengano pressoché costantemente nell’area forze navali, supportate in alcuni casi da basi permanenti. L’EU è presente con l’operazione EU Atalanta, la NATO con Ocean Shield, oltre ad analoghe iniziative cinesi, russe e ovviamente indiane. Anche la Marina Iraniana è attiva al di fuori di Hormuz, sia in missioni di antipirateria sia in chiave di sorveglianza marittima, anche in ottica di contenimento anti-israeliano. Fra le nazioni Europee, la Francia mantiene una presenza navale di maggior profilo, inviando ogni anno per 5 mesi un Gruppo navale centrato sulla portaerei Charles De Gaulle e da un Sommergibile, per citare solo gli assetti più significativi.

Di recente anche la Turchia si è affacciata nell’area, con importanti operazioni di “soft power” nei confronti della Somalia, costruendo un aeroporto internazionale a Mogadiscio e proponendosi come aiuto nella ricostituzione delle forze armate somale. La Germania ha avviato contatti preliminari per muoversi autonomamente nell’avviare cooperazioni con la Somalia e con i paesi dell’Africa orientale, nell’ambito di un’iniziativa parallela a quella proposta dal Governo italiano in ottica europea con il “migration compact”, volto a stabilizzare anche con investimenti, oltre che con iniziative mirate alla sicurezza, i paesi origine della maggior parte dell’emigrazione di massa.

La Cina ha da alcuni anni dato vita un intelligente e massiccio esercizio di “soft-power”, diretto in particolare verso i Paesi della costa dell’Africa orientale e sud orientale, che nei piani di Pechino si spingerà fino a interessare il Mediterraneo. E’ già in atto il coinvolgimento della Grecia nel progetto della nuova via marittima della seta, per trasformare il Pireo nel suo puto d’arrivo, come snodo per la successiva distribuzione, via terra e via mare, in concorrenza con Trieste e Venezia.

Evidenza concreta dell’importanza dell’Oceano Indiano e del Golfo Persico per l’Italia è testimoniata dalle missioni condotte dalla Marina Militare (8 missioni principali di lunga durata con significativo impiego di mezzi, incluse dislocazioni di Portaerei e impiego dell’aviazione tattica imbarcata, senza contare le attività di presenza navale di unità isolate) dal 1979 ad oggi.

Piaccia o no, il Mediterraneo è oggi, ancora più che in passato, un continuum geo-strategico e soprattutto geo-economico con il Mar Nero, l’Oceano Indiano e il Golfo Arabico-Persico.  Quell’entità geo-politica e geo-economica che a partire dagli anni 90 è stata identificata con il termine Mediterraneo allargato, per indicare l’area di diretto interesse nazionale, a superamento del concetto “soglia di Gorizia=Mediterraneo centrale” degli anni 50 e 60.

In tal senso peraltro si sta muovendo la nuova politica estera italiana sotto l’impulso del Presidente del Consiglio e del Ministro degli Esteri, come dimostrato dall’intensificazione dei rapporti ai massimi livelli con i Paesi del Golfo, dell’oceano Indiano e verso l’Asia. L’apertura verso l’Iran, il lancio dell’iniziativa del cd. “migration compact”, sono importanti tasselli della ripresa dell’iniziativa italiana per assumere maggiore rilevanza nella regione.

E’ quindi tempo di allineare la “visione” della Difesa a quella della politica estera nazionale. L’attuale disconnessione è a mio parere uno dei problemi che andrà necessariamente risolto per acquisire tempestività e resilienza nella nostra azione, verso i Paesi con cui vogliamo far crescere in ampiezza e profondità i rapporti politici, commerciali e di sicurezza.  

Dobbiamo rivedere la pianificazione militare e procedere senza ulteriori indugi alla conseguente riconfigurazione del nostro strumento militare e del suo impiego, anche e soprattutto per le operazioni in tempo di pace.

 

3. Il “Soft Power” e le Navi da “guerra”.

Le navi possono dislocarsi liberamente nei tratti di mare prospicienti le aree d’interesse o di crisi, rimanendo al di fuori delle acque territoriali, ·consentendo la presenza, se necessario discreta, della Nazione, senza tuttavia la necessità di richiedere autorizzazioni per attraversare lo spazio aereo o il territorio di Paesi terzi. La loro presenza, di per sé svolge una funzione di deterrenza e dissuasion, rimanendo comunque pronte in qualsiasi momento all’azione diretta, potendo modulare con gradualità il proprio intervento, secondo la volontà del Governo.

Le unità navali hanno inoltre un’intrinseca capacità duale, ossia la possibilità di essere impiegate prontamente, senza necessità di ulteriori investimenti, né di modifiche strutturali · anche in compiti non militari a supporto delle popolazioni colpite da calamità naturali, carestie, ovvero da gravi disastri, per il trasporto di materiali umanitari e di prima necessità. Tale capacità duale fa sì che le potenzialità delle navi possano essere sfruttate appieno anche in tempo di pace in Italia e all’Estero come strumento d’elezione di Soft Power, appunto.

Un ampio spettro delle capacità di cui la Marina già dispone per fini militari, è infatti pienamente applicabile al campo civile. Basti pensare alle pregiate e variegate professionalità del personale imbarcato, che spaziano dal settore dei medici a quello degli artificieri, dei subacquei, dei palombari, del personale di volo, elettricisti, tecnici informatici, ingegneri etc. etc; alle capacità d’intervento degli elicotteri nella ricerca e soccorso, nelle campagne contro gli incendi (vds. interventi in Libano degli elicotteri imbarcati sul Garibaldi nelle acque libanesi durante la fase marittima della missione Leonte del 2006, contro incendi di oliveti e boscaglia nei dintorni di Beirut).

In tal senso è stata emblematica anche l’operazione del 30° Gruppo Navale, imperniato sulla Portaerei Cavour, che è stato un esercizio di autentico “smart power”, in cui la parte “soft power” è stata dominan . La campagna navale denominata “Il sistema Paese in movimento” è stato un grande sforzo promosso dalla Marina Militare per incentivare una serie di attività promozionali, umanitarie e addestrative congiunte con le piccole marine dei paesi rivieraschi, in attività di “confidence building”/“partnership” (“soft power”) e di sicurezza marittima – antipirateria (“hard power”), durata circa 5 mesi, interessando i principali Paesi del Golfo Persico e dell’Africa (periplo dell’Africa).

L’obiettivo della missione era di aumentare il potere attrattivo dell’Italia, riaffermando il suo prestigio e credibilità, al di là dello stereotipo Food – Fashion - Football,  in aree di primario interesse strategico ed economico, anche alla luce degli sviluppi potenziali dei rapporti commerciali con paesi che rappresentano nuovi mercati di imminente grandissima espansione e sinora poco ricettivi, per distanza e differenze culturali, alle offerte commerciali e d’interscambio con l’Italia.

La missione è stata un grande successo sia in termini di nuovi contratti da parte delle nostre imprese sia sotto il profilo delle relazioni istituzionali con i Paesi di nostro interesse, testimoniati anche da numerosi nuovi accordi di cooperazione militare nel settore marittimo. Purtroppo alla missione non ha fatto seguito altra iniziativa in quei mari. Anche l’attività di addestramento e pattugliamento a protezione dei campi estrattivi dell’ENI, svolta per circa un mese da Nave Borsini, a favore della nascente marina del Mozambico, non ha poi ricevuto il supporto da parte della Difesa per rendere strutturale tale cooperazione. La nostra uscita di scena, peraltro a valle della firma di un MoU (Memorandum of Understanding) con il Mozambico sul tema della collaborazione per la sicurezza marittima nell’area, ha lasciato spazio alla Francia che ha immediatamente venduto al Mozambico alcuni piccoli pattugliatori, embrione della sua futura Marina. E’ stato un esempio di quella disconnessione fra politica estera nazionale e politica militare, di cui accennavo al precedente paragrafo.

La missione del 30° Gruppo navale ha comunque evidenziato come le Navi Militari, simbolo dell’“hard power”, siano perfettamente idonee come forza attrattiva in chiave di “soft power”. In breve, sono la perfetta sintesi dello “smart power” (hard power+soft power).

Purtroppo noi non sfruttiamo ancora a sufficienza le potenzialità di queste due facce della stessa medaglia, offerte dallo strumento marittimo a supporto della politica estera e del nostro interesse nazionale.

 

4. Inconsapevolezza della vocazione marittima dell’Italia

Fra le cause di questo sottoimpiego della Flotta come strumento di politica estera in tempo di pace vi è certamente la scarsa consapevolezza delle sue potenzialità e più in generale della vocazione marittima della Nazione.

Nonostante le caratteristiche dell’economia, la sua collocazione geografica, la sua storia stessa convergano in modo inequivocabile a indicare per l’Italia un destino marittimo, tale consapevolezza non è diffusa nell’opinione pubblica nazionale, né si riflette nell’ambito della Difesa, come si evince peraltro dal recente Libro Bianco della Difesa.

Resiste invece, anzi riemerge sempre più, una sorta di nostalgia per la vecchia impostazione Esercito-centrica che vorrebbe confinare al solo Mediterraneo centrale la nostra area di diretto interesse, che vedrebbe la Marina Militare, secondo una visione anacronistica, direi provocatoriamente “proto-sabauda” (culturalmente ante Cavour Ministro della Marina, per intenderci), ridimensionata a un ruolo sostanzialmente ancillare all’Esercito e non com’è nella sua natura, forza strategica di proiezione di capacità, strumento d’elezione a sostegno alla politica estera nazionale.

A riprova del mancato recepimento della natura marittima dell’Italia e dell’ampiezza della sua area d’interesse (il cd Mediterraneo allargato), è sufficiente esaminare la distribuzione delle risorse stabilite dal Ministero della Difesa fra le Forze Armate, che riflette ancora sostanzialmente le percentuali del periodo della Guerra Fredda, quando le esigenze prioritarie stabilite dalla Nato per l’Italia, erano incentrate sulla difesa delle frontiere terrestri e degli spazi aerei, per ritardare un’eventuale invasione massiccia da parte delle forze del Patto di Varsavia, in attesa dei rinforzi alleati, mentre, per la componente navale si prevedeva essenzialmente un ruolo ausiliario alla 6^ Flotta.

A tal proposito, si consideri che l’assegnazione delle risorse alle FF.AA. del 198[1] per il Settore Investimento prevedeva il 31% del capitolo investimento all’Esercito, il 43% all’Aeronautica e il 26% alla Marina. Oggi, la ripartizione delle risorse per l’investimento, includendo il sostegno del Mi.S.E., contempla: il 27% all’Esercito, il 47% all’Aeronautica e il 26% alla Marina; sebbene vi sia sempre più l’esigenza di disporre di una componente navale coerente con l’accresciuta importanza della dimensione marittima per l’Italia, la quota assegnata alla Marina non è aumentata, mentre è incrementata la quota destinata all’Aeronautica ed è solo leggermente diminuita quella dell’Esercito.

Analoghe considerazioni valgono per il Settore Esercizio. Nel 1988 la ripartizione delle risorse prevedeva il 41% all’Esercito, il 37% all’Aeronautica ed il 22% alla Marina; nel 2013 – tenendo conto anche delle “funzioni esterne” e delle risorse recate dal c.d. “Fuori Area” – mentre l’Esercito è salito al 49%,  la Marina è scesa rispettivamente al 20%!

Ciò, nonostante il Mediterraneo sia nel frattempo rimasto sguarnito, orfano della 6^ Flotta e ormai privo di presenza navale Inglese e Francese, le cui unità principali sono dislocate essenzialmente a tutela degli interessi nazionali nei territori oltremare/ex colonie, in oceano Indiano e nel Pacifico.

Dobbiamo inoltre tenere conto che la probabilità di uno scontro aeroterrestre che coinvolga l’Italia in operazioni di guerra convenzionale a difesa del suo territorio è alquanto improbabile. Di contro, è accresciuta l’esigenza per l’Italia di mantenere – sin dal tempo di pace – l’equilibrio del bacino mediterraneo, nella sua accezione allargata, ovviamente, attraverso la costante opera di sorveglianza dell’unica frontiera esposta (il mare) e delle linee di comunicazioni marittime.

Va inoltre considerato che il sistema di Alleanze · per le quali vige sempre più il criterio d’intervento “laddove possibile e quando necessario” · non è in grado di rispondere a tutti i bisogni di sicurezza dell’Italia, ma solo a quelli che vengono percepiti dall’intera collettività degli Stati membri in misura almeno pari alla nostra (emblematiche le resistenze europee per il supporto all’Italia sull’immigrazione).

Il Paese deve quindi accettare la necessità di fronteggiare da solo, in alcuni casi, situazioni di contenzioso bilaterale con Paesi terzi, nonché rischi e minacce che lo riguardano di più rispetto ad altri Alleati. Di qui l’esigenza di una Flotta bilanciata.

Sarebbe pertanto quanto mai necessario e urgente, rivedere i criteri di ripartizione delle risorse alle FF.AA, per renderli coerenti con le attuali prioritarie esigenze dell’Italia e per tenere conto della centralità del mare per la prosperità e la sicurezza nazionale. Senza una decisa revisione dell’attuale ripartizione, è evidente che parlare di nuovi orizzonti marittimi rischia di rimanere un esercizio di scuola per Stati Maggiori.

 

5. I fattori di debolezza

Il primo problema è la difficoltà a identificare in modo chiaro l’interesse nazionale. Anche parlarne nell’agone politico è difficile. E’ un imbarazzo che discende ovviamente dalla sconfitta disastrosa nella Seconda Guerra Mondiale e che ci accomuna in parte anche se con sfumature e declinazioni molto diverse alla Germania e al Giappone.

La conseguenza più concreta è che noi impieghiamo all’estero le nostre forze armate, senza troppe difficoltà in missioni originate da qualcun altro, USA, UE, ONU , mentre esitiamo maggiormente in caso di esigenze prioritariamente nazionali. In sintesi, anche se questo Governo ha dimostrato iniziative importanti, basti pensare al successo Italiano di ottenere dalla UE la missione Sofia (interamente sotto comando italiano), si sente ancora, a livello di opinione pubblica, il bisogno di una legittimazione dall’esterno. Non sto parlando di fare la guerra, mi riferisco alle missioni di stabilizzazione e sicurezza che hanno caratterizzato l’impiego esterno delle nostre Forze, nel secondo dopoguerra.

Intendiamoci, sarebbe ingenuo immaginare di rifiutarsi di sostenere con nostri contingenti, il nostro alleato di riferimento e potenza egemone del mondo occidentale. Non sarebbe una buona idea.

Il secondo aspetto da risolvere è l’uso della forza in operazioni diverse dalla guerra. La nostra incisività militare appare spesso inferiore a quella di altri alleati, sia che si muovano indipendentemente (come avviene spesso per la Francia e per l’Inghilterra) sia nell’ambito di coalizioni. Tale atteggiamento un tempo dovuto alla ipersensibilità della nostra opinione pubblica, ormai abituata a vedere i nostri militari in missioni all’estero, è dovuto essenzialmente al mancato recepimento nel codice di pace di norme adeguate sull’uso della forza in operazioni diverse dalla guerra, fra cui, ad esempio le missioni di pace. Accade così che piccoli contingenti, con regole d’ingaggio più adeguate al contesto operativo, abbiano avuto ritorni politici maggiori rispetto alla partecipazione di gruppi tattici assai più numerosi, ma vincolati alla mera autodifesa.

E’ evidente che se l’uso della forza è ammesso solo in autodifesa (anche nelle sue più fantasiose declinazioni – es. i nostri bombardamenti in Kossovo o in Libia) è assai difficile per i Comandanti acquisire l’iniziativa contro gli avversari, anche in operazioni moralmente sacrosante, quali quelle mirate a eliminare unità avversarie prima che possano attaccarci o per proteggere persone inermi.

Sia chiaro che non metto in dubbio il coraggio dei militari italiani che invece fanno miracoli nelle condizioni loro date; dico che non è giusto né efficace farli operare in teatri di guerra, secondo il codice militare in vigore ad esempio per andare in poligono o in esercitazione.

Un capitolo del Codice Penale Militare che regoli l’uso della forza in tempo di pace, nelle operazioni militari diverse dalla guerra, potrebbe essere un primo passo importante a tutela dei militari sul campo, ma anche della catena di comando di vertice civile e militare, preposta all’approvazione delle regole d’ingaggio.

Solo così potremo dare ai comandanti regole d’ingaggio idonee per conseguire sul campo la necessaria incisività operativa, acquisendo l’iniziativa sul campo,  consentendoci di proteggere meglio il nostro personale e le popolazioni sotto la nostra tutela e conseguendo ritorni complessivi assai maggiori.

Certamente la macchinosità del processo decisionale per l’impiego delle forze armate non favorisce la nostra velocità di reazione nella gestione delle crisi. Maggiori poteri al Presidente del Consiglio o al Capo dello Stato con riferimento all’impiego della forza militare, come avviene in molte delle democrazie occidentali sarebbe di grande aiuto.

 

6. Esigenza di una strategia marittima nazionale

E’ tempo di fare pace con noi stessi e accettare l’idea che l’Italia abbia la maturità per affrontare con lucidità ed esplicitamente il tema dell’interesse nazionale.

Sarebbe così possibile definire una strategia per l’azione esterna, di lungo periodo che vada oltre la dimensione militare, per includere tutte le capacità dello Stato di esercitare, in modo coordinato, la propria azione, con la necessaria continuità e resilienza. La nostra credibilità internazionale ne trarrebbe immenso giovamento. Avremmo la possibilità di predisporci in anticipo e di sviluppare rapporti più solidi e duraturi con i nostri potenziali nuovi partner (es. i Paesi emergenti dell’Africa), evitando improvvise discontinuità nei rapporti e nella nostra presenza nel tempo, che generano spesso frustrazione e delusione, favorendo l’inserimento in nostra vece di nazioni competitrici, purtroppo anche europee, come la Francia e la Germania, caratterizzate da meno “sprint”, ma da un passo costante di lunga autonomia. Nell’ambito di tale visione dovrebbe trovare adeguata collocazione la definizione della strategia marittima nazionale.

La strategia marittima dovrebbe definire:

  • gli obiettivi strategici di riferimento per lo strumento marittimo inteso nel suo complesso (militare e mercantile) da conseguire e in quali tempi;
  • un “piano d’azione integrato” per sviluppare l’azione coordinata dei Ministeri interessati (Esteri, Economia, Difesa, MISE, Trasporti, Beni Culturali, etc.);
  • le risorse necessarie;
  • l’autorità/struttura responsabile per il controllo delle risorse e del coordinamento interministeriale per l’implementazione della strategia medesima.

Per le risorse sarebbe indispensabile provvedere con un provvedimento pluriennale per dare respiro strategico e continuità all’azione di presenza navale e di interazione con i Paesi con i quali siamo intenzionati a rafforzare le relazioni.

La strategia marittima, considerato anche i nostri fattori di debolezza, ma anche quelli di forza (e non sono pochi), dovrebbe concentrarsi prima di tutto sulle operazioni atte a migliorare il potere attrattivo dell’Italia nel mondo tramite una pià estesa applicazione delle nostre potenzialità nell’ambito del “Soft Power” (addestramento, assistenza medica e tecnologica) e nell’”hard power in being” ovvero il controllo del mare ai fini di deterrenza e stabilizzazione, contrasto dell’uso illegittimo del mare, tutela della sicurezza energetica, protezione delle linee di comunicazioni marittime e dei passaggi obbligati di primario interesse nazionale, pronti tuttavia a sviluppare quando necessario l’uso graduale e proporzionato della forza senza il quale anche la capacità di deterrenza viene meno.

La priorità dovrebbe essere data all’area strategica definita Mediterraneo Allargato con enfasi verso oriente, ovvero Mediterraneo, Mar Rosso, Golfo Persico e Oceano Indiano sino allo stretto di Malacca.

In tale prospettiva l’Italia, costituendo l’anello di raccordo tra l’Europa, l’Africa e il vicino Oriente, si può proporre · per posizione geografica, cultura e storia · quale referente naturale per i Paesi molti dei africani rivieraschi e mediorientali. Al contempo, il Paese può risultare particolarmente rilevante, agendo anche quale partner abilitante dell’Unione europea e della NATO nell’opera di dialogo e cooperazione con i Paesi rivieraschi.

Solo assumendo con decisione tale responsabilità, l’Italia potrà acquisire una maggiore valenza a livello internazionale, contribuendo anche al recupero della credibilità del Paese. Contestualmente, per sostenere una politica estera credibile e non velleitaria, l’Italia dovrà adeguare lo strumento militare e quello marittimo in particolare, per rivestire, sin dal tempo di pace, un ruolo primario nella difesa avanzata e nella sicurezza marittima, attraverso una costante opera di presenza, sorveglianza, deterrenza e capacità d’intervento anche in termini di dialogo e cooperazione militare nel Mediterraneo, nella sua dimensione allargata.  In tale prospettiva, emerge la rilevanza della Marina Militare, elemento abilitante primario per consentire all’Italia di assumere· sin dal tempo di pace · un ruolo da protagonista nel giocare un ruolo incisivo nell’area di preminente interessa nazionale.

Ammiraglio Giuseppe de Giorgi

Ammiraglio Giuseppe de Giorgi - Orizzonti Marittimi