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Accordi di Abramo: veri forieri di pace?

Prima di esprimere qualsiasi considerazione, partiamo dai fatti: il 15 settembre a Washington sono stati siglati i così detti “Accordi di Abramo”, con cui è stata sancita la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein.

Già nell’agosto (il 13) Trump aveva annunciato che, dopo aver avuto lunghi colloqui telefonici con il primo ministro israeliano Netanyahu e il principe ereditario Mohammed bin Zayed, di fatto leader degli Emirati Arabi Uniti, poteva confermare che a breve sarebbe stato finalizzato «an historical peace agreement» [1] con il quale appunto si sarebbero normalizzati i rapporti tra i due stati (a cui solo dopo si è aggiunto il Bahrein).

Cosa s’intende con il termine “normalizzazione”? Parliamo del riconoscimento da parte di Emirati Arabi e Bahrein di Israele come Stato. Ad oggi, del gruppo di stati Palestinesi, soltanto l’Egitto e la Giordania (rispettivamente nel 1979 e nel 1994) avevano già compiuto questo passo.

Il presidente Trump, che è in affanno nella corsa per l’Election Day del prossimo 3 novembre, ha voluto segnare con questa vittoria diplomatica un punto a suo favore. Questo accordo è, però, realmente portatore di pace?

Per prima cosa bisogna dire che se da un lato l’annuncio del 13 agosto di Trump è stato inaspettato, non lo erano altrettanto le basi su cui esso si poggia, in quanto i governi di Emirati Arabi Uniti e Israele collaborano e si parlano da anni. Non ufficialmente, d’accordo, ma ufficiosamente la cosa era già nota.

In una lunga e interessante ricostruzione compiuta da “Il Post” si legge che: «Tra le altre cose, il Mossad, il servizio segreto di Israele per l’estero, aveva da tempo relazioni non ufficiali con i Servizi segreti di diversi paesi del Golfo Persico. Il direttore dell’agenzia, Yossi Cohen, aveva fatto viaggi negli Emirati, in Arabia Saudita e in Qatar, oltre che in Giordania e in Egitto. Con l’inizio della pandemia da coronavirus questi rapporti erano diventati ancora più stretti. Il Mossad aveva riconosciuto di acquistare all’estero materiale medico per trattare il COVID-19, e alcune ricostruzioni della stampa israeliana e internazionale avevano parlato di voli “riservati” carichi di mascherine e ventilatori provenienti proprio dagli Emirati. A giugno, inoltre, l’ambasciatore emiratino negli Stati Uniti, Yousef al Otaiba, aveva scritto un significativo editoriale diretto a un pubblico israeliano, e pubblicato in ebraico sul popolare quotidiano israeliano Yediot Ahronot. L’editoriale si intitolava “O annessione o normalizzazione”, e metteva in discussione la tesi di Netanyahu per cui l’annessione della Cisgiordania – obiettivo perseguito da tempo dalla destra israeliana – non avrebbe compromesso la possibilità per Israele di avviare relazioni diplomatiche con gli Emirati e l’Arabia Saudita. O una cosa o l’altra, diceva al Otaiba» [2].

Non è strano, dunque, prendere atto che negli Accordi di Abramo Israele abbia dovuto mettere da parte, almeno per il momento, l’annessione della Cisgiordania, proprio come si leggeva nell’editoriale appena citato.

Nonostante Israele abbia “ceduto” sulla questione Cisgiordania, come ha scritto Anshel Pfeffer, giornalista di Haaretz, il primo ministro israeliano esce vincitore da questi accordi poiché ha ottenuto ciò che nessun altro prima di lui era riuscito a ottenere, ossia l’avvio di relazioni diplomatiche ufficiali con un paese arabo del Golfo Persico senza però fare concessioni ai palestinesi: «È difficile sostenere oggi che l’occupazione che va avanti da 53 anni sia “insostenibile”, quando Netanyahu ha appena dimostrato non solo che lo è, ma anche che Israele può migliorare i suoi rapporti con il mondo arabo apertamente, senza rinunciare all’occupazione» [3].

Anche gli Emirati che cercano di assumere agli occhi dell’Occidente un ruolo sempre maggiore nella risoluzione della questione mediorientale, con questa apertura ne escono “vincitori” e lo sarebbero ancora di più se si trascinassero dietro qualche altro paese della Penisola Araba (come è stato per il Bahrein) dimostrando di essere i più “tolleranti” tra gli stati del Golfo. Per non parlare di Trump che con questa mossa si è stato proposto come candidato al Nobel per la pace!

Chi, invece, ne risulta duramente sconfitto sono i Palestinesi, che hanno salutato questo accordo come un tradimento da parte dei due Paesi arabi dopo aver negato a Trump il ruolo di mediatore per le sue decisioni favorevoli a Israele.

Il premier palestinese Mohammed Shtayyeh ha definito “un giorno buio” quello degli accordi, anche se Trump ha incalzato dicendosi convinto di riuscire a coinvolgere anche altri Paesi del Golfo come Oman e Arabia Saudita, perché dice, si renderanno conto alla lunga che è meglio stipulare un accordo che essere lasciati da parte.

Ma l’accordo di Abramo segna anche una sfida del mondo sunnita all’Iran visto come la principale minaccia nel Golfo Persico e in Siria. Talmente temuta da far superare ideologicamente la lotta al grande nemico del popolo arabo, Israele, occupante della città santa di Gerusalemme e delle terre dei musulmani.

Per l’Iran, il nuovo assetto nelle relazioni internazionali in Medio Oriente costituisce un fattore di debolezza che dovrà da un lato cercare di compensare con un avvicinamento ulteriore alla Russia e dall’altro aumentare la tensione e l’aggressività delle comunità scite nei territori occupati e in Siria al fine di vanificare la portata politica degli “accordi di Abramo” nel breve/medio termine.

Vedremo quali saranno gli sviluppi futuri in una zona così instabile nella quale convergono un numero tanto diverso e numeroso di interessi contrastanti.

A tal proposito vorrei concludere condividendo le parole equilibrate e imparziali di Annalisa Perteghella, Research Fellow dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale che ha commentato così: «Sebbene sia stato presentato in questo modo, quello firmato oggi non è un accordo di pace: in primo luogo perché i paesi in questione non sono mai stati formalmente in guerra; in secondo luogo perché non coinvolgendo la componente palestinese esso non rappresenta un avanzamento del processo di pace. È semmai la ratificazione dell’esistente, l’ufficializzazione di relazioni in corso da anni a livello non ufficiale. A fare da catalizzatore dell’allineamento in questi anni è stata una comune percezione dell’Iran come principale minaccia strategica, particolarmente forte non solo nel caso di Israele ma anche delle monarchie sunnite del Golfo» [4].

Del resto, mentre negli Usa si stava firmando l’«historical peace agreement» le sirene di allarme anti-missili suonavano all’impazzata a nord della Striscia di Gaza a causa di 13 razzi (secondo quanto riporta l’esercito israeliano) sparati a più riprese verso Israele. Anche se otto di questi sono stati intercettati dal sistema israeliano di difera Iron Dome e non si hanno notizie di vittime, non è un bel segnale in concomitanza con gli accordi appena siglati.

Ammiraglio (a) Giuseppe De Giorgi

 

[1] Questo il link al video completo: https://www.youtube.com/watch?v=yPeZ_eUkzEI&ab_channel=GuardianNews

[2] https://www.ilpost.it/2020/08/14/accordo-israele-emirati-arabi-uniti-spiegato/

[3] https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-in-uae-deal-netanyahu-trades-imaginary-annexation-for-real-life-diplomacy-win-1.9071474

[4] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/israele-emirati-e-bahrein-laccordo-di-trump-27416

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